LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE NON TORNI INDIETRO"

creata il 12 febbraio 2010 aggiornata il 15 febbraio 2010

 

 

Vieni da "La causa freudiana"

Sei in

"Gradiva, un passo avanti"

Gradiva

„Norbert Hanold erinnert sich nicht beim Anblick des Reliefs, daß er solche Fußstellung schon bei seiner Jugendfreundin gesehen hat; er erinnert sich überhaupt nicht, und doch rührt alle Wirkung des Reliefs von solcher Anknüpfung an den Eindruck in der
Kindheit her. Der Kindheitseindruck wird also rege, wird aktiv gemacht, so daß er Wirkungen zu äußern beginnt, er kommt aber nicht zum Bewußtsein, er bleibt „unbewusst“, wie wir mit einem in der Psychopathologie unvermeidlich gewordenen Terminus heute zu sagen pflegen. Dieses Unbewußte möchten wir allen Streitigkeiten der Philosophen und Naturphilosophen, die oft nur etymologische Bedeutung haben, entzogen sehen. Für
psychische Vorgänge, die sich aktiv benehmen und dabei doch nicht zum Bewußtsein der betreffenden Person gelangen, haben wir vorläufig keinen besseren Namen, und nichts anderes meinen wir mit unserem „Unbewusstsein“. Wenn manche Denker uns
die Existenz eines solchen Unbewußten als widersinnig bestreiten
wollen, so glauben wir, sie hätten sich niemals mit den entsprechenden seelischen Phänomenen beschäftigt, stünden im Banne der regelmäßigen Erfahrung, daß alles Seelische, was aktiv und intensiv wird, damit gleichzeitig auch bewußt wird, und hätten eben noch zu lernen, was unser Dichter sehr wohl weiß, daßes allerdings seelische Vorgänge gibt, die, trotzdem sie intensiv sind und energische Wirkungen äußern, dennoch dem Bewußtsein ferne bleiben“.

„Alla vista del bassorilievo Norbert Hanold non ricorda di aver già visto quella postura del piede nell’amica di gioventù. Non ricorda nulla e, tuttavia, l’intero effetto [soggettivo] del bassorilievo dipende dal collegamento con l’impressione infantile, la quale si attiva, al punto da produrre effetti, senza però giungere alla coscienza. Rimane inconscia, come diciamo di solito con un termine ormai diventato inevitabile in psicopatologia.
Vorremmo vedere sottratto questo inconscio a tutte le dispute dei filosofi e dei naturalisti, di valore spesso meramente etimologico. Per indicare i processi psichici che si comportano attivamente, pur non arrivando alla coscienza della persona interessata, non disponiamo provvisoriamente di un termine migliore. Questo e nient’altro intendiamo con il nostro “inconscio”. Se certi pensatori ci contestano come contraddittoria una siffatta nozione di inconscio, la ragione – crediamo – è che non si siano mai occupati dei corrispondenti fenomeni psichici, rimanendo nell’ambito dell’esperienza ordinaria, secondo cui tutto lo psichico, quando si attiva intensamente, diventa per ciò stesso contemporaneamente cosciente. Hanno ancora da imparare ciò che il nostro scrittore sa bene e cioè l’esistenza di processi psichici che, pur manifestandosi in modo energico e intenso, restano lontani dalla coscienza.”  (S. Freud, “Il delirio e i sogni nella ‘Gradiva’ di W. Jensen” (1906), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, vol. VII, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, pp. 73-74).

Ho scelto questo passo di Freud perché in poche righe condensa l’oscillazione epistemica del fondatore della psicanalisi. Freud sta esattamente in bilico tra scienza antica e moderna. Si affaccia alla finestra della scienza moderna e vede l’inconscio: un sapere che produce intensi effetti soggettivi (“deliri e sogni”), pur senza arrivare alla coscienza. Ma poi spaventato si ritrae, chiude la finestra e si ritira nella torre d’avorio del determinismo aristotelico, dove la causa produce sempre l’intero effetto:

doch rührt alle Wirkung des Reliefs von solcher Anknüpfung an den Eindruck in der
Kindheit her
(„tuttavia, l’intero effetto [soggettivo] del bassorilievo dipende dal collegamento con l’impressione infantile “).

Freud fa un passo avanti e due indietro. Si incammina dietro Gradiva, ma poi si pente e torna sui suoi passi.
Cosa spaventa Freud? Freud ossessivo, psicastenico e redibitorio?
Non lo capiremo mai del tutto. È un vero enigma, che nessun epigono è riuscito mai a risolvere del tutto. Gli allievi di Freud hanno contestato il maestro, magari riproducendolo in copia conforme nelle nuove scuole da loro fondate, ma non ne hanno mai carpito il dramma segreto. Freud come Amleto?
Una cosa è certa: non è la contraddizione a spaventare Freud. I suoi detrattori sostengono che la nozione di inconscio sarebbe widersinnig, letteralmente “contro” (wider) “senso” (Sinn). Ma Freud non molla la presa. Un sapere che non si sa di sapere, ma che ciononostante produce tutti gli effetti di un sapere saputo, è per lui perfettamente coerente. Freud non sa dimostrarlo teoricamente – non ne ha gli strumenti – ma lo mostra clinicamente e, quando è in forma, lo mostra romanzi alla mano, nelle opere degli scrittori. (Dichter, tradotto scioccamente poeti).
Noi, invece, sappiamo – non dico dominare ma – elaborare teoricamente la nozione freudiana di inconscio. Sappiamo che un sapere che non si sa di sapere non è contraddittorio. La logica intuizionista di Brouwer ce ne porge un modello. Se fosse contraddittoria, la logica dell’inconscio non avrebbe modelli. Invece, ne ha ha almeno uno e questo ci rassicura sulla sua coerenza. Possiamo, allora formulare tranquillamente alcune considerazioni, come le seguenti, sicuri come siamo che l'inconscio non è il regno dell'illogica, come sostiene l'ultimo Freud nel suo Compendio di psicanalisi (postumo).

Nella logica dell'inconscio, come nella logica intuizionista, non vale il principio del terzo escluso. Come gli psicanalisti dovrebbero sapere, nell'inconscio la negazione non sempre nega. Quando non nega, serve a "far risalire" il rimosso verso la coscienza. Si può allora usare la formula del terzo escluso (A vel non A), ora non più chiusa dentro un teorema, per "terzoesclusivizzare" ogni enunciato. In seguito alla trasformazione ogni enunciato X diventa (X vel non X). La trasformazione, che è giusto chiamare epistemica, non trasforma X in un teorema, ma porge il sapere di X, in generale un sapere congetturale (non dimostrato). In formule scriviamo il sapere di X semplicemente così: SX. SX non è contraddittorio. Da SX non deriva tutto e il contrario di tutto. Anzi, la scrittura SX gode di interessanti teoremi… freudiani. Ne cito alcuni, tralasciando le dimostrazioni pressoché ovvie.

Non SX implica SX, il non sapere implica il sapere. Ma questo è addirittura cartesiano: dal dubbio (non sapere se si sa o non si sa) deriva la certezza dell’esistenza del soggetto che dubita.
SSX equivale a SX, sapere di sapere equivale a sapere. Non si esce dal sapere sapendo. In epistemologia la metafisica non esiste. Lacan direbbe che non esiste metalinguaggio, sfidando la logica, perché il suo enunciato è di fatto metalinguistico.
I due teoremi si combinano nel terzo:
Non SSX implica SX, non sapere di sapere implica sapere. Questo teorema segnala addirittura una direttiva pratica per trattare il sapere inconscio. Dice: opera con la tua ignoranza (col non sapere di sapere) e arriverai a sapere. L’interpretazione psicanalitica non è altro che questo: l’ignoranza dell’analista in azione produce (suscita, spesso erroneamente) il sapere (non erroneo) dell’analizzante.

Non capiremo mai perché Freud abbia distolto lo sguardo da questo paradiso epistemologico per acquattarsi nella palude del cognitivismo aristotelico. Perché abbia abbandonato la via dello scire per theoremata e si sia abbassato allo scire per causas. Per effetto di controtransfert, nauseato dalla numerologia del suo analista Fliess? Non lo sappiamo ed è meglio abbandonare queste strade interpretative di stampo patobiografico.
Si può, invece, applicare a Freud lo schematismo lacaniano del tempo logico, articolato in tre momenti:

Momento di vedere. Freud vede che nell’isteria c’è dell’inconscio.
Momento di comprendere. Freud comprende che l’inconscio è la causa del sintomo isterico.
Momento di concludere. Freud conclude che tutti i fenomeni psichici si spiegano con l’inconscio.

La conclusione del sillogismo freudiano, scorretta anche dal punto di vista aristotelico, realizza propriamente il regresso dalla scienza moderna – che è congetturale e incompleta – alla scienza antica – che è dogmatica e completa. Compiuto il primo passo falso, seguono precipitosamente tutti i successivi. Sono i passi che portano Freud a costruire la metapsicologia delle pulsioni, intese come cause. Le pulsioni non sono istinti biologici. Sono cause. Sono cause efficienti le pulsioni sessuali, che dovrebbero produrre la soddisfazione sessuale. E' una causa finale la pulsione di morte, che mira a minimizzare le tensioni psichiche.
Propriamente parlando, nella metapsicologia pulsionale l’inconscio svanisce. La metapsicologia spiega tutto: non c’è più non sapere, quindi non c’è più inconscio. La metapsicologia è la realizzazione laica (ma misera) dell’onniscienza divina.
Allora vedi Freud, posseduto da una sorta di delirio maniacale di onnipotenza, spiccare il volo dalla clinica delle psiconevrosi per atterrare nella critica letteraria. Pretende spiegare i romanzi (per la verità, si sceglie dei romanzetti) come spiega i sintomi nevrotici. Vola alto, ma come a Icaro gli si squagliano le penne, appiccicate con il cerume della metapsicologia. Avrebbe fatto meglio a seguire il passo danzante di Gradiva. Almeno sarebbe rimasto con i piedi per terra. (0)
   
*

Con Gradiva si può fare un altro giro di danza.
Tutti gli psicanalisti sanno che non si devono scrivere patografie, ma poi tutti non fanno altro. E' il virus della spiegazione universale che colpisce implacabilmente. Anche Freud, in comunella con il suo allievo Jung, tenta di patografare Jensen, per fortuna senza riuscirci. Allora noi patografiamo Freud, così per scherzo, tanto non è difficile. Lo facciamo solo per dimostrare l’assurdità in psicanalisi dell’approccio eziologico.
Freud scrive una novella sulla novella, una metanovella, indiscutibilmente meglio scritta della novella originale, la novella-oggetto di Jensen. Con un curioso capovolgimento che Freud riesce a farci percepire. La novella di Freud sembra l'originale. Sta a quella di Jensen come l'originale greco perduto (IV sec. a.C.) sta alla copia romana del bassorilievo della Gradiva, che Hanold conserva nel suo studio. C'è poco da fare. Bisogna riconoscere che Freud è un Dichter, uno scrittore di razza. 24 anni dopo sarà insignito del premio Goethe, una sorta di Nobel per la letteratura in lingua tedesca. Jensen, invece, resta uno scribacchino velleitario, che non sa mettere nero su bianco le proprie idee narrative, anche quando sono potenzialmente buone. Viene in mente quel che una dozzina di anni prima Freud scriveva di sé nell’epicrisi del caso Elizabeth von R. Ho già citato il passo in diversi punti del sito (v. per esempio, Freud e Contro i casi clinici) e qui lo riporto per esteso:

„Ich bin nicht immer Psychotherapeut gewesen, sondern bin bei Lokaldiagnosen und Elektroprognostik erzogen worden wie andere Neuropathologen, und es berührt mich selbst noch eigentümlich, daß die Krankengeschichten, die ich schreibe, wie Novellen zu lesen sind, und daß sie sozusagen des ernsten Gepräges der Wissen­schaftlichkeit entbehren. Ich muß mich damit trösten, daß für dieses Ergebnis die Natur des Gegenstandes offenbar eher verant­wortlich zu machen ist als meine Vorliebe; Lokaldiagnostik und elektrische Reaktionen kommen bei dem Studium der Hysterie eben nicht zur Geltung, während eine eingehende Darstellung der seelischen Vorgänge, wie man sie vom Dichter zu erhalten gewohnt ist, mir gestattet, bei Anwendung einiger weniger psycho­logischer Formeln doch eine Art von Einsicht in den Hergang einer Hysterie zu gewinnen. Solche Krankengeschichten wollen beurteilt werden wie psychiatrische, haben aber vor letzteren eines voraus, nämlich die innige Beziehung zwischen Leidensgeschichte und Krankheitssymptomen, nach welcher wir in den Biographien anderer Psychosen noch vergebens suchen.“

“Non sono sempre stato uno psicoterapeuta. Come tanti altri neuropatologi mi sono formato su diagnosi locali e prognosi elettriche. Perciò mi colpisce proprio che le storie cliniche da me scritte si leggano come novelle, carenti come sono, per così dire, del marchio della serietà scientifica. Per consolarmi non mi resta che attribuire la responsabilità di questo risultato alla natura dell’oggetto piuttosto che alle mie preferenze. Diagnosi locali e reazioni elettriche non hanno corso nello studio dell’isteria, mentre la rappresentazione approfondita dei processi psichici, quale ci è in genere fornita dagli scrittori, mi consente, applicando poche formule psicologiche, di ottenere una certa comprensione dell’andamento di un’isteria. Storie cliniche come questa andrebbero giudicate come psichiatriche, rispetto alle quali hanno tuttavia un vantaggio, cioè di segnalare l’intimo rapporto tra storia delle sofferenze e sintomi morbosi, che invano cercheremmo nelle biografie [psichiatriche] delle altre psicosi.” (S. Freud, “Studi sull’isteria” (1895), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 277).

Freud stesso ci insegna a prendere con le molle questo genere di giustificazioni troppo razionali. Freud vorrebbe farci credere che, poverino, lui stava onestamente cercando la serietà scientifica, ma che questa gli è sfuggita di mano per la natura dell’oggetto di ricerca. La letteratura avrebbe preso la rivincita sulla scienza. Oggi, a distanza di un secolo, possiamo tranquillamente affermare che questa è una palla. In verità, la letteratura non c’entra. Freud, come tutti, come Darwin e Einstein, resisteva alla scienza – addirittura resisteva alla nuova scienza che lui stesso stava per inventare. La storia della regressione dalla nuova scienza all’antica è scritta per “seconda intenzione” ­– come si diceva un tempo in medicina per la guarigione di una ferita purulenta – proprio nel commento alla Gradiva di Jensen.
Come faccio a dirlo? Non è difficile, patograficamente parlando.

L’eroe della novella, Norbert Hanold, è un archeologo che, con qualche scucitura psichica – azioni coatte, pseudoallucinazioni e sogni incubosi – realizza la transizione soggettiva dal mondo freddo della scienza (rappresentato convenzionalmente nella novella come mondo nordico, tedesco) al mondo caldo dell’amore per un’amica d’infanzia (rappresentato altrettanto convenzionalmente come mondo meridionale, italiano). Trascuro l’interpretazione freudiana della Gradiva, come figura che rappresenta la fissazione al ricordo rimosso di un innamoramento infantile. Nella metanovella freudiana c’è qualcosa di più bruciante di questo stereotipo interpretativo. Per esempio, qualcosa del genere.

La scienza per antonomasia è per Freud l’archeologia. Lui stesso è un collezionista di vecchie statuette. Nei suoi scritti sono frequenti i riferimenti allo scavo psicologico, di cui quello archeologico sarebbe il modello. Ma, casualmente, all’epoca anche Freud sta  eseguendo la travagliata transizione dalla fredda scienza al caldo amore. Si tratta dell’amore per la cognata, sorella minore della moglie. Di questo passaggio restano tracce nella Psicopatologia della vita quotidiana, scritta l’anno prima della Gradiva2, nella dimenticanza del pronome aliquis, scomposto in a liquis, senza liquido… mestruale. Sono cose che capitano nelle migliori famiglie. Nel commento alla Gradiva1 il complesso della sorella tornò come fissazione interpretativa. Freud pretendeva che l’autore di Gradiva1 fosse rimasto fissato all’amore incestuoso per la sorella. L’autore irritato smentì seccamente. Non ebbe sorelle e non volle più saperne di freudianerie. Freud, invece, ne ebbe ben cinque di sorelle con tutte le freudianerie del caso. La preferita era la seconda. Con la prima, Anna, litigava sempre. La seconda si chiamava Regina, detta Rosa. Morì gasata a Treblinka.
Le coincidenze biografiche tra Gradiva1 e Gradiva2, buone per  interpretare a manetta, sarebbero innumerevoli (1), ma sorvolo. Fine miseranda della patografia? Chi di patografia ferisce di patografia perisce? Anche, certo. Fine ancora più miserevole, però, è quella dello schematismo interpretativo causale freudiano, che fomenta le razionalizzazioni psicanalitiche. Sembrano scientifiche, ma sono prescientifiche, cioè di buon senso. Nel caso servirono a Freud non solo per regredire dalla scienza all’Eros, ma per chiudere definitivamente i conti con la scienza – la propria stessa scienza psicanalitica.

*

La parola giusta sui rapporti tra scienza e letteratura la dice Mario Lavagetto alla fine della sua prefazione a un interessante libretto, pubblicato nel 1992 dallo Studio Tesi di Pordenone, che raccoglie le due Gradive: la novella-oggetto di Jensen e la metanovella di Freud. Sentiamola:

“Peccato, infine, che Freud, pur ricavando dalla vicenda uno spunto decisivo per il saggio Lo scrittore [non poeta!] e la fantasia, non abbia saputo riconoscere nella fuga di quel modesto scrittore […] un’immagine della letteratura impegnata a difendere l’opacità, che egli stesso le riconobbe, in più occasioni, come irrinunciabile prerogativa”.

L’opacità (Undurchsichtigkeit) della letteratura è una sola: la falsità della finzione. La falsità è anche ciò che la letteratura condivide con la scienza. Ma con una differenza di fondo. Il falso della letteratura è falso e basta. Resta falso, perché in un certo senso è già del tutto vero nel momento in cui lo scrittore lo scrive. Anzi, il falso della finzione è l’unico vero accessibile alla letteratura. Le madeleine di Proust sono false e vere al tempo stesso, proprio perché sono come sono descritte così e cosà da Proust. Sono loro e non possono essere altro. La loro verità sta nella loro singolarità. Non si adeguano a nulla se non a se stesse, singolarmente considerate. Nella loro singolarità sono universali, come sosteneva Goethe. Conseguenza: in letteratura il falso-vero è statico. Se allo scrittore riesce il gioco di prestigio, il suo falso-vero rimarrà in eterno come tale. Non cambierà mai. Tutt’al più sarà disponibile all’infinita ruminazione dei critici letterari, che sbricioleranno i dettagli della singolarità, perché noi ignoranti possiamo inghiottirla a piccoli bocconi e assimilarla.

Invece, il falso-vero scientifico è dinamico. Evolve. Passa dallo stadio di falsità della congettura o dell’ipotesi di lavoro allo stadio di minore falsità della tesi scientifica, parzialmente dimostrata o parzialmente confermata. Tuttavia, nonostante l'indefessa "perlaborazione" (durcharbeiten) della comunità scientifica, la congettura scientifica rimarrà, tuttavia, sempre lontana dalla verità assoluta e categorica. Non sarà mai come la verità dogmatica della religione. Manterrà sempre uno statuto di verità condizionata. Per la congettura scientifica vale che, se certe premesse sono vere, allora certe conseguenze saranno probabili. La scienza è modesta. Non dice le cose come stanno in modo categorico, come il medico o il giudice o a volte, troppo spesso, lo psicanalista freudiano.

*

 Questo è il tempo e il luogo per concludere una querelle, che io stesso ho contribuito ad alimentare nella pagina Contro i casi clinici.
Il momento narrativo e storico – diacronico – è indispensabile al processo analitico. La diacronia è il dato di partenza, esattamente come per la scienza antica, della quale utilizza l'impostazione eziologica, secondo la quale la successione (romanzesca) degli eventi è una successione di cause ed effetti. Solo che la scienza moderna non si ferma lì. Una psicanalisi prende spunti dalla biografia. Non può farne a meno. È il suo primo tempo. Come la biologia, anche la psicanalisi prevede una sostanziosa fase descrittiva, che precede la fase di teorizzazione. Seduta dopo seduta, la narrazione dell’analizzante copre il periodo della raccolta dei materiali per la costruzione teorica (provvisoriamente) definitiva. Non importa che i fatti raccontati in seduta siano veri o falsi. In analisi, come diceva Polonio, il falso è utilissimo come esca per acchiappare la carpa della verità. Importa che i fatti narrati siano analizzati, cioè collocati in un secondo temposincronico – in un contesto teorico che li giustifichi criticamente, separando quelli meno falsi (non dico più veri) da quelli più falsi. Il momento sincronico di sistemazione dei risultati può durare molto poco rispetto al momento diacronico. Il momento diacronico corrisponde al lacaniano tempo per comprendere. Il momento sincronico, invece, corrisponde al momento per concludere. Un’analisi può essere molto breve, se arriva subito al momento per concludere, cioè alla sistemazione teorica delle premesse da cui era partita, in genere senza che l'analizzante lo sapesse. Ma l'analisi può non finire mai, se prolunga indefinitamente la fase narrativa (diacronia o momento per comprendere) senza arrivare mai a concludere. Tanto per dire che la questione delle “cure brevi” è generalmente mal posta, cioè posta in modo falso e per lo più sterile dal punto di vista scientifico. Non esistono analisi brevi nel senso dei processi brevi che il governo italiano vorrebbe imporre alla giustizia. Esistono analisi che concludono e sono brevi e analisi che non concludono e sono interminabili.

Con questo discorso non cambio di molto le mie posizioni, tuttavia. I resoconti di casi clinici non possono limitarsi alla narrazione, in genere portata a sostegno di qualche dottrina psicanalitica di scuola. I cosiddetti casi clinici, come i romanzetti che Freud amava portare a sostegno della propria metapsicologia, servono a costruire la teoria. Ma non nel senso che dalla loro realtà empirica si “induce” la teoria. Questo è un postulato positivistico ormai abbattuto. I casi clinici servono a falsificare teorie psicanalitiche stabilite altrove, per esempio a partire da altri casi clinici. Purtroppo, raramente vengono usati in questo senso. Allora, se sono patografie, io resto contrario ai casi clinici, alle supervisioni, ai controlli e a tutte le altre pratiche di conformazione del giovane analista alla dottrina di scuola, in quanto, come diceva Freud, “sono carenti del marchio della serietà scientifica”.

Morale di questa pagina:

impariamo a liberare Freud dai suoi stessi freudismi.

Note

(0) Freud non nutre interessi estetici, invadendo il campo letterario. Va a caccia di conferme della propria "psicanalisi medica". Non essendo scienziato, ma medico, ignora che le congetture scientifiche non si confermano, ma si confutano. E trova conferme dove più e meglio gli conviene, per esempio nella Gradiva di Jensen. Cito:

"Wir entwickeln diese Gesetze durch Analyse aus seinen Dichtungen, wie wir sie aus den Fällen realer Erkrankung herausfinden, aber der Schluß scheint unabweisbar, entweder haben beide, der Dichter wie der Arzt, das Unbewußte in gleicher Weise mißverstanden, oder wir haben es beide richtig verstanden. Dieser Schluß ist uns sehr wertvoll; um seinetwegen war es uns der Mühe wert, die Darstellung der Wahnbildung und Wahnheilung sowie die Träume in Jensens „Gradiva“ mit den Methoden der ärztlichen Psychoanalyse zu untersuchen."

"Sviluppiamo queste leggi [dell'inconscio] analizzando i suoi testi così come le ricaveremmo dai casi di malattia reale. Ma una conclusione ci sembra incontrovertibile: o entrambi, il medico e il poeta, hanno "cannato" l'inconscio allo stesso modo o entrambi l'hanno compreso correttamente. La conclusione è per noi molto importante. Per guadagnarla valeva la pena di esaminare con i metodi della psicanalisi medica [sic] la rappresentazione della formazione e della guarigione del delirio, non meno dei sogni della Gradiva di Jensen". (S. Freud, "Il delirio e i sogni nella Gradiva di W. Jensen" (1906), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, Vol. VII, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 121). (Torna su)

(1) Il raddoppiamento del testo narrativo è una pacchia per gli ermeneuti: discrepanze e coincidenze tra i due testi divengono lo spunto per un'esegesi infinita. Freud stesso segnala questa possibilità come regola empirica della Traumdeutung: "In diesem Falle können wir uns einer empirisch gefundenen Regel bedienen, welche uns rät, die Traumerzählung wiederholen zu lassen. Der Träumer verändert dabei gewöhnlich seine Ausdrucksweise an manchen Stellen, während er sich an anderen getreulich wiederholt. Wir aber klammern uns an die Stellen, in denen die Reproduktion durch Abänderung, oft auch durch Auslassung, fehlerhaft ist, weil uns diese Untreue die Zugehörigkeit zum Komplex verbürgt und den besten Zugang zum geheimen Sinn des Traumes verspricht".

"In questo caso possiamo servirci della regola empiricamente trovata di far ripetere il racconto del sogno. Di solito il sognatore cambia il proprio modo di esprimersi in diversi punti, mentre in altri lo mantiene invariato. Noi, però, ci aggrappiamo alle variazioni, spesso alle omissioni e agli errori, perché queste infedeltà testuali nascondono l'appartenenza al complesso e promettono il migliore accesso al senso segreto del sogno". (S. Freud, "Diagnostica del fatto e psicanalisi" (1906), in Sigmund Freud Gesammelte Werke, vol. VII, Fischer, Frankfurt a.M 1999, p. 11.) (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAPERE IN ESSERE

SAPERE IN DIVENIRE

Torna alla Home Page